Un omaggio allo scrittore di Vigevano, della provincia, nell'Italia del Boom.
Allo scrittore dei calzolai, degli operai, degli industrialotti e dei maestri elementari.
Una raccolta di materiali biografici, fotografici per conservarne la memoria, per raccontarne il mondo, per rinnovare l'invito a leggerne i libri.

In virtù dell'amicizia che ci ha legato per tanti anni.

Gabriele Francese

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IL CALZOLAIO DI VIGEVANO
Einaudi 1962, collana "I Coralli"

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IL CALZOLAIO DI VIGEVANO
Dopo una prima pubblicazione nella rivista «Il Menabò» (1959), il primo romanzo di Lucio Mastronardi andò in libreria con un volume a se stante nell'ottobre 1962, dopo la pubblicazione del secondo romanzo, «Il Maestro di Vigevano».
Ambientato tra le due guerre, durante il fascismo, Il calzolaio è un romanzo breve in cui Lucio Mastronardi spinge alle massime conseguenze la sua commistione dialetto/italiano (persino con qualchè difficoltà di lettura, per i lettori meno abituati al lombardo della zona lomellina).
Incentrato sulla ricerca ossessiva del denaro, non è un quadretto sarcastico scala 1:1 del piccolo mondo degli scarpari vigevanesi: piuttosto - attraverso le gesta piccole ma epiche e disperate del "Micca", il calzolaio protagonista - una caricatura, una voltura al grottesco in un ambiente costruito, lontano, quasi teatrale del mondo vigevanese che Mastronardi conosceva meglio: quello a lui contemporaneo.

RISVOLTO
Mastronardi, nato nel 1930 a Vigevano, maestro elementare, «scoperto» come narratore da Elio Vittorini nel 1959 con il suo primo romanzo, e col secondo (Il Maestro di Vigevano) candidato Einaudi al Prix Formentor 1962, è una figura «irregolare» della letteratura unica nel suo genere. Con un impasto di dialetto e di lingua egli trasfigura una situazione locale e sociale (un centro artigiano che diventa centro industria le negli anni della guerra etiopica al secondo dopoguerra) nella invenzione di un mondo grottesco, infernale. Mastronardi è il Balzac di un mondo di calzolai, che s'affannano, a famiglie complete, lavorando notte e giorno in stambugi con piccole macchine per riuscire a mettere su un giorno una fabbrichetta; o meglio ne è il Gogol, tanta è la forza e la spietatezza della sua allegria caricaturale.
Quello che egli ci fa vivere sotto gli occhi è - come scrive montale - «un brulicante trescone di branchi di castori umani», mosso da una furia di produzione e di guadagno e di moltiplicazione che non conosce soste, che sottomette vita privata e amori, che crea, tomaia per tomaia e suola per suola, grandi fortune e le fa sparire da un giorno all'altro in una lotta di concorrenza senza esclusione di colpi. Quest'epopea elementare non poteva aver vita se non attraverso un linguaggio come quello che l'autore le ha dato, che non si allontana mai dalla trascrizione fonetica del parlato più irriflesso e si colora di tutte le grandi miserie e le piccole grandezze di vite umane costrette a far esplodere la loro carica in un orizzonte di pura economicità.

In sovracoperta un disegno di Todò (1960)


«Il Calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi è un romanzo nel quale l'autore fa parlare tutti i suoi personaggi nel dialetto della sua città, disseminando parole e costrutti dialettali anche nei pochi brani ch'egli riserba a se stesso in funzione di raccontafiabe.
Un libro di questo genere un tempo si sarebbe detto populista o umanista o avrebbe portato altre etichette del genere: oggi si deve considerarlo come una variante del neorealismo in atto. Non singole figure a pieno rilievo, perchè i due presunti protagonisti sono presto assorbiti da una folla; non azioni che si svolgano secondo un disegno, ma il quotidiano brulicante trescone di branchi di castori umani che lottano per elevarsi dall'ago (dal trapano) al milione, e che poi ricadono nella condizione servile dalla quale sono partiti.
Le cento pagine del libro si leggono con qualche fatica poichè non a tutti - non certamente a noi - è facile seguire nei suoi significati il particolare lessico degli scarpari di Vigevano: ma questo non impedisce di ammirare la verre dello scrittore, la prudenza con cui egli volge in farsa e balletto quella ch'era forse l'ambizione di imbarcarsi in una complessa narrazione a sfondo sociale.
A parte la carica e l'economia, in Mastronardi c'è senza dubbio la forza del narratore. Siamo però all'oscuro delle sue reali possibilità, per il fatto che la «mimesis» di cui egli si compiace non è ancora intesa in senso troppo materiale, nell'illusione sempre pronta a risorgere che lo stile sia «la cosa»: mentre è ormai certo che lo stile è anche la cosa.
Nel caso di Mastronardi la tentazione era forte e giustificata, non potendosi immaginare un libro simile scritto in pura lingua italiana: e tuttavia quando noi leggiamo Monssù travet di bersezio ci accorgiamo che il dialetto dà ai suoi personaggi una dimensione nuova, mentre nel Calzolaio la parlata vigentina spinge tutto e tutti sul piano della felice improvvisazione ch'è proprio della commedia dell'arte: un piano in cui non v'è frase che non sia intercambiabile e sostituibile.
E forse le parti più gustose del libro sono quelle che fanno sconfinare il grottesco nel ridicolo come nell'episodio del gatto Comparuzzo, dei suoi complici e della sua tragica fine».

Eugenio Montale
(Dal «Corriere della Sera» del 31 luglio 1959)

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